In palazzi appositamente deputati venivano fatti tutti gli esperimenti sulla probabilità. Ci si era resi conto, col tempo, che la statistica non possedeva null’altro che quella pur solidissima base teorica, ma non poteva offrire quei riscontri pratici che servivano in quella società basata sul lavoro; e al fine di combattere gli scettici per natura, quei dubbiosi che dal tanto dubitare alla fine si convincono dell’improbabilità di molte cose solo per diffidenza, e ne fanno una verità assoluta che tanto disturba gli statistici – se così vogliamo chiamarli - e poco gli statisti, si era organizzata una struttura preposta alla verifica empirica di tutti i paragoni statistici che erano stati usati nei secoli precedenti per fornire l’esatto termine di misura per ogni previsione, garantendo il minor margine di errore possibile: anzi, si arrivò a sostenere che, nel giro di pochi anni, grazie al sistema intrapreso nelle dimostrazioni, si sarebbe con certezza arrivati ad un vero e proprio registro di tutti i paragoni possibili.
La struttura di tale struttura non lasciava niente al caso, così come il suo funzionamento. Un Ente Nazionale, a partecipazione quasi interamente statale (faceva eccezione il contributo di qualche benefattore che si sarebbe così garantito la gloria e la fama eterna di filantropo, legando il proprio nome al numero di occorrenze di un certo evento, in qualità di misuratore di quantità), aveva sede nel famoso Palazzo una volta della Provincia – al momento dell’abolizione di questa obsoleta e anti-unitaria istituzione aveva ospitato per circa un decennio una televisione privata, che aveva poi venduto parte degli uffici riadattati a studio per le riprese ad una nota azienda di documentari sanitari sulla riproduzione, che a sua volta le aveva subaffittati a banche per poi trasformare i piani dal 4 al 15 in un centro per la distribuzione dei tagliandi della lotteria iranica – e divideva la sua attività in due rami: la ricerca e la sperimentazione.
La ricerca in realtà occupava solo il sesto piano e i sottostanti. Circa un centinaio di dipendenti passava le giornate a spulciare, pagina per pagina, parola per parola, tutti i testi degli ultimi duemila anni scritti nella nostra gloriosa lingua. Certo, si sospetterà che così pochi dipendenti, sebbene preparati, non potessero in alcun modo essere gli artefici della ricerca minuziosa che tanti risultati aveva dato anche in senso letterale del termine: una quantità di dati che, in soli quattro anni di funzionamento, avrebbe dovuto impiegare migliaia e migliaia di persone nella sola ricerca di informazioni per gli esperimenti successivi; ma invero, un semplice trucco bastava per individuare rapidamente il dato desiderato fra milioni. Con l’aiuto di potenti calcolatori, gli impiegati del sesto piano scremavano i testi in base a parole chiave quali “probabilità”, “maggiore”, “minore”, “più”, “meno” ed altre, legate evidentemente ad un paragone. In nessun caso il sesto piano era autorizzato a segnalare le perifrasi, perché compito del quinto piano. Poi al quarto e al terzo solo una trentina di impiegati maneggiavano il materiale per le tabelle di confronto che servivano al secondo piano per inviare i paragoni al primo, il cui compito era il più delicato e dove erano assegnati solo una quindicina di persone.
In pratica, il quinto piano, una volta ricevuta una stringa di non più di trecento battutte dal sesto, stabiliva quando una parola come “maggiore” potesse effettivamente far parte di un termine di paragone e non significare, per esempio, una carica militare o essere un aggettivo qualsiasi con altro significato (detto per inciso, per gli aggettivi si era maturato un certo astio probabilmente dovuto all’affermarsi della statistica come strumento di correlazione: una cosa era simile ad un’altra non per una qualità in comune ma per la ricorrenza dello stesso numero di occorrenze relative a situazioni più o meno congruenti); e da qui il quarto e il terzo soprattutto riuscivano a mettere le frasi così ormai totalmente aliene al contesto originario in un tabellario ordinato non per numero consecutivo ma per ordine di elemento di paragone, per evitare le ripetizioni. Al quarto si redigevano, al terzo si scremavano le repliche semantiche (se in un paragone comparivano gatto e cane, e in un altro felini e canidi, quantomeno si segnalava l’identicità quasi totale di campo semantico di riferimento).
Il secondo piano rilevava quali fossero i paragoni statisticamente verificabili, incarico di una certa responsabilità ma che comunque non permetteva agli assegnati alcun potere pratico né politico: le scelte sulla sperimentazione venivano fatte al primo piano, da questa quindicina di persone, che erano in realtà quindici personalità di spicco della Nazione.
Non faremo adesso i nomi questi soggetti tanto importanti per le certezze della Nazione, sebbene nonostante il riserbo che esisteva siamo giunti in possesso di un documento che parrebbe identificarne un gran numero e spiegare anche le funzioni ricoperte, nonché il complicatissimo procedimento che si soleva – e per quanto ne sappiamo si suole tutt’ora – utilizzare. Quello che possiamo dire è che non pochi tra giornalisti e politici ne hanno fatto parte, e alcuni per più di un mandato decennale. [...] e in questo modo come il kilo per il peso e i galloni per i liquori, così anche i dati avevano il loro metro di misura.
[...] Vale la pena ricordare che fu in quel periodo in cui si iniziò a dar peso all'attendibilità delle statistiche - più o meno tra la fondazione dell'Ente Nazionale e il suo successivo spostamento nei palazzi già citati - che proprio dai detrattori di queste venne l'impulso maggiore alla sperimentazione e alla prova empirica. Nonostante tutto, quello che molti continuavano a vedere di sbagliato (erroneamente) nelle statistiche non era il margine di errore troppo grande nei risultati e l'imprevedibilità nel mondo che minava le sicurezze di questa scienza; il malessere, la non accettazione della regola statistica era l'illogicità delle previsioni da essa proposte e il modo di calcolare le probabilità utilizzato.
Per oltrepassare questo stallo nei molti restii all'accettazione, fu programmata una serie di esperimenti la cui durata non era stimabile - salvo per calcolo statistico - ma il cui esito necessariamente era noto; tanto che risulta ad oggi incredibile come, messa in discussione la verità, si portava come ipotesi un fatto che adesso verrebbe accettato come ovvio e, soprattutto, vero: ma tanto può l'ignoranza degli altri, che ci convince a mettere in discussione i nostri punti fermi, e quelli dell'ancor giovane Nazione. Non è importante adesso dilungarci nella descrizione [...] delle case e degli uffici [...], e servano a titolo di esempio due di queste squadre di tecnici: quella dell'orologio, conosciuta anche come "La Lancetta", e quella dello spillo.
La prima tributava il suo nome ammiccante ed ironico al dott. Capino, che la capitanava e ne organizzava i lavori. Tutto si doveva a questo intervento in Commisione di un membro di minoranza: "Ciò lo vedo meno probabile di un orologio che, smontato e lanciato, cada a terra ricomponendosi perfettamente". L'intervento, estrapolato, non ha alcun valore in sé, in questo ambito; ma resta purtuttavia importante perché, invero piuttosto incidentalmente, fu la scintilla di un dibattito che occupò - si parla di alcuni lustri fa, quando ancora non si condannava l'opinione non contabilizzata (e proprio per questa necessità di condanna si iniziò in seguito a sperimentare) - le pagine dei giornali e le conversazioni nei bar. La Nazione incaricò Capino di condurre uno studio che registrasse e descrivesse la caduta di uno stesso orologio smontato, e la annotasse dal lancio (donde La Lancetta, con fine sarcasmo) fino alla quiete totale. A parte le difficoltà dovute all'unicità dell'orologio da usare - non si sarebbe potuto infatti cambiare l'oggetto, per non falsare la serie di descrizioni - nei 46 anni circa di esperimenti, con 1 lancio ogni 5 minuti e mezzo, per 24 ore e 6 giorni alla settimana, si ottenne qualcosa come poco meno di 4.000.000 di lanci. Il risultato più prossimo al 100% (perfetta ricomposizione) fu un 83%.
Alcuni, per lo più frange estremiste, sostennero la pericolosità dell'esperienza, basandosi sull'osservazione che, se si fosse raggiunta la totale ricomposizione neli primi 5 milioni di tentativi, il tempo si sarebbe fermato perchè non ne sarebbe rimasto a sufficienza nell'universo per permettere l'occorenza di tutti i casi in cui l'orologio non avrebbe potuto ricomporsi.
Non è invece credibile, da un punto di vista politico, l'ipotesi per cui in realtà ci sarebbero stati altri cinque orologi. Il dott. Capino aveva tuttavia in un primo momento dichiarato che l'esperienza sarebbe stata portata avanti con sei orologi; ciò ha dato adito a teorie complottistiche. Dopo il termine dello studio sono usciti dossier anche molto ben fatti che dimostrerebbero come in quattro di queste supposte esperienze si siano ottenuti risultati inferiori a quelli ufficiali, mentre in una si sia riusciti ad ottenere o il 100% o una cifra molto vicina. Si noti come, per probabilità, se fosse vera quest'ultima cifra sarebbe falsa l'altra, essendo molto improbabile che due valori molto prossimi ed estremi possano occorrere all'interno della stessa serie o esperienza.
La previsione del membro della Commissione risulta invece errata.
Quella dello spillo faceva capo all'inzio a Innocenzo Orli, nato a Cuneo e residente non lontano. Si può così sintetizzare: presa una scatoletta da 500 spilli reperibile facilmente in merceria cercò invano durante tutta la sua vita di calcolare le probabilità per cui uno spillo lanciato da due metri di altezza potesse cadere sul suo lato più sottile, ovvero la punta. In una specie di scatolone di vetro, se così possiamo definire la sofisticata camera asettica parellelepipoidaipipedoiaale in cui piovevano gli spilli, si tentò la realizzazione osservata di questo evento previsto del tutto e per tutto per una settantina di anni: dopo quasi sei lustri di ottimo servizio, infatti, Orli venne a mancare improvvisamente, e il progetto passò nelle mani di due suoi giovani collaboratori; e uno di questi, Pratesi, chiuse l'esperienza e l'esperimento con un nulla di fatto - nulla, ovviamente, per gli scettici.
[...] "Gli scettici, coloro che si aspetteranno sempre qualcosa di nuovo": così Capino, in una sua nota che forse resta la miglior testimonianza testuale di una lavoro vissuto con passione e determinazione. E di seguito: "La certezza che al mondo esistano cose realizzabili e cose invece non verificabili e che queste ultime esistano nel piano della verità assoluta perchè il loro non manifestarsi è la prova della loro esistenza, non è una dicotomia che la nostra scienza riformata accetti. Gli scettici non sono pertanto coloro che dubitano negando l'esistenza di fenomeni, ma coloro che non dubitano affatto che questi esistano. Per loro il mondo è mancante, finito, monco: triste destino quello di colui che rifiutando la possibilità vede un mondo ridotto e vive l'universo della materia! Molto maggiore in virtù, e in conoscenza, quello che sa che ogni cosa esiste perchè esiste la possibilità. E sebbene i nostri esperimenti, che io chiamo esperienze perchè anche quando falliscono il dimostrare la possibilità ne contribuiscono a creare la perfetta controparte statistica della non realizzabilità, sebbene questi non abbiano fatto altro che compiere quest'ultima parte del computo finale di ogni eventualità, noi siamo intimamente certi che tutto il pensabile esista, e che la scienza statistica sia la misura della realtà. Quando pensiamo una cosa, non agiamo come lo scettico, che pensa a come sia possibile negarla - e facilmente nell'esperienza sua ne trova prova fallace: noi ci informiamo su quando sia avvenuta o esistita, o calcoliamo il suo futuro avvento".
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