sabato 16 maggio 2009

Riflessione sul ricordo

La differenza, evidente, tra procedimento e oggetto sta nel divenire del primo opposto all’essere del secondo.
Il procedimento risente della finalità. Capaci di vedere il futuro, guardiamo con timore al passato poiché in esso vediamo il monito di quello che è stato, e non sarà più; e odiamo gli altri, i quali, non essendosi fermati nei migliori momenti della nostra vita che è stata, ci ricordano che questi non torneranno più. Grande invenzione, dunque, quella che ci permette di salvare in una immagine un momento, o un oggetto, che, fattosi forme e colori convenzionali, diventa rappresentazione del ricordo, presente oggi solo nella verità del pensiero ma non più in quella della materialità; da qui, la grandezza supposta della fotografia, in questa funzione di ricordo materialmente presente oggi al di fuori del nostro pensiero. Ma quanto misera questa grandezza, se fosse così ristretto il suo ventaglio di possibilità. Un uomo per bene non coltiverebbe mai questa tecnica sapendo che l’unico risultato che da quella potrà venire è una fittizia immagine di un ricordo.
E nemmeno lo farebbe per rappresentare il mondo materiale. Che senso ha ricopiare, al pari di un quadro ben fatto, l’istantaneo di un momento del mondo materiale? Anzi, su di una tela noi vediamo un qualcosa di diverso, rispetto all’istantaneo; noi vediamo accettate o discusse le convenzioni dell’osservazione, la spiegazione delle regole che l’occhio dovrà seguire perché nella mente si formi un referente dell’espresso, o le forzature di quelle. Ma ancora: se dovessimo dar retta a chi dice che la fotografia è la rappresentazione del reale così come è, cadremo già nell’errore di ritenere quella che è una rappresentazione fedele della percezione la realtà materiale, mentre la fotografia resta un insieme ordinabile di forme e colori, e non è se non un oggetto terzo.
Diranno ora: ma anche il fotografo più puro, se pure non cerca di ritoccare artificialmente i propri scatti, rappresenta la realtà così come lui la vede in un certo luogo e tempo. Ma dove, allora, l’interesse nel fingersi un altro per vedere una cosa che a questi piacque? E non sarebbe, forse, una comunicazione lineare, non complessa e quindi non artistica, in senso generale? Non è capace di stimolo artistico ciò che non è minimamente ambiguo; non lo è un messaggio decodificabile in maniera logicamente univoca, non lo è la comunicazione, così come non è una poesia un giornale in una edicola.
E quindi, un intervento sull’immagine è necessario. E il primo, che non ricorre a strumenti, ed è il più basilare, è la prospettiva, che non si trova se non nella mente dell’uomo come regola, prima che nell’oggetto fotografia. Poi i colori, la loro disposizione forzata o scelta, ma sempre calcolata, anche nello scartare o valorizzare uno scatto. Infine, bastando questi due elementi, la soggettività del fotografo nel procedimento sarà talmente marcante che nulla più di effettivamente reale – o piuttosto materiale terzo - apparirà nell’oggetto finale.
Questo resti come scontato; perché il punto è poi un altro, cioè se sia o non sial’arte della fotografia quella che, elaborando il reale, giunge al pensato inesistente nella materialità. E lo è, esclusivamente.

1 commento:

NêZ ha detto...

"[...] Ciò appare al Narratore come un enigma che lo interpella: qual è, ad esempio, il segreto della petite madeleine, quel biscottino intinto nel tè che, confondendo le coordinate spaziali e temporali, non soltanto si dimostra capace di riaccendere il sapore di un identico biscottino gustato nell'infanzia in casa di zia Léonie a Combray, ma anche di riesumare un tempo andato che il Narratore fin lì percepiva come "morto per sempre"? Cosa dà a quella petite madeleine il potere di aprire uno spaccato così preciso del tempo trascorso, con i suoi odori, sapori, sentimenti ridivenuti vivi, presenti, indubitabili?" A. Laserra

Io li vendo, i souvenirs.