mercoledì 12 maggio 2010

La Poesia

di Vicente Huidobro*


Oltre alla significazione grammaticale del linguaggio, ne esiste un’altra, una significazione magica, che è l’unica che ci interessa. Uno è il linguaggio oggettivo di cui abbiamo bisogno per nominare le cose del mondo senza aggiungere altro alla loro qualità catalogante; l’altro rompe questa norma convenzionale e in esso le parole perdono la loro rappresentazione stretta per acquistarne un’altra più profonda e quasi circondata da una aura luminosa
che deve sollevare il lettore dal piano abituale e avvolgerlo in una atmosfera incantata.

In tutte le cose esiste una parola interiore, una parola latente che soggiace alla parola che le designa. È quella la parola che il poeta deve scoprire.



La poesia è il vocabolo scevro da tutti i pregiudizi; il verbo creato e creatore, la parola neonata. Essa si dispiega nella prima alba del mondo. La sua puntualità non consiste nel denominare le cose, ma nel non distanziarsi dall’alba.

Il suo vocabolario è infinito perché essa non crede alla certezza di tutte le sue possibili combinazioni. E il suo ruolo è trasformare le probabilità in certezza. Il suo valore è segnato dalla distanza che va da ciò che vediamo a ciò che immaginiamo. Per essa non c’è né passato né futuro. Il poeta crea fuori dal mondo che esiste quello che dovrebbe esistere. Io ho il diritto di voler vedere un fiore che cammina o un gregge di pecore che solca l’arcobaleno, e colui che mi voglia negare questo diritto o limitare il campo delle mie visioni va considerato un mero inetto.

Il poeta fa sì che le cose della Natura cambino vita, pesca con la sua rete tutto ciò che si muove nel caos dell’innominato, tende fili elettrici tra le parole e illumina all’improvviso angoli sconosciuti, e questo intero mondo esplode di fantasmi inattesi.


Il valore del linguaggio della poesia è in ragione diretta con il suo allontanamento dal linguaggio parlato. Questo è ciò che il volgo non può capire poiché non vuole accettare che il poeta tenti di esprimere solamente l’inesprimibile. Le altre cose sono per le chiacchiere di paese. Il lettore medio non si rende conto che il mondo eccede il valore delle parole, e che rimane sempre qualcosa oltre la vista umana, un campo immenso lontano dalle formule del traffico quotidiano.


La Poesia è una sfida alla Ragione, l’unica sfida che la ragione pu
ò accettare, poiché una crea la sua realtà nel mondo che È e l’altra in quello che STA ESSENDO.

La Poesia c’è prima dell’inizio dell’uomo e dopo la fine dell’uomo. Essa è il linguaggio del Paradiso e il linguaggio del Giudizio Finale, essa munge le mammelle dell’eternità, essa è intangibile come il tabù del cielo.



Francis Picabia, Figlia nata senza Madre, 1916-17
Scottish National Gallery of Modern Art (c) ADAGP, Paris e DACS


La Poesia è il linguaggio della Creazione. Per questo solamente coloro che mantengono il ricordo di quel tempo, solamente coloro che non hanno dimenticato il vagito del parto universale, né gli accenti del mondo che si formava, sono poeti. Le cellule del poeta si sono ammassate nel primo dolore e conservano il ritmo del primo spasmo. Nella gola del poeta l’universo cerca la sua voce, una voce immortale.

Il poeta rappresenta il dramma angosciante che prende forma tra il mondo e il cervello umano, tra il mondo e la sua rappresentazione. Colui che non abbia sentito il dramma che ha luogo tra la cosa e la parola non potrà capirmi.


Il poeta conosce l’eco dei richiami delle cose alle parole, vede i lacci sottili che le cose si tendono tra di loro, ascolta le voci segrete che si lanciano l’un l’altra parole separate da distanze incommensurabili. Fa stringere la mano a vocaboli nemici sin dall’inizio del mondo, li raggruppa e li obbliga a marciare nel suo gregge - per quanto esse siano ribelli - scopre le allusioni più misteriose del verbo e le condensa in un piano superiore, le intesse nel suo discorso, nel quale l’arbitrario assume un ruolo incantatore. Lì tutto acquisisce nuova forza e così può penetrare nella carne e provocare febbre all’anima. Lì prende quel tremolio ardente della parola interiore che apre la mente del lettore e le da ali e lo trasporta a un piano superiore, lo eleva di rango. Quindi si impossessano dell’anima la fascinazione misteriosa e la tremenda maestà.


Le parole possiedono un genio recondito, un passato magico che solamente il poeta riesce a scoprire, perché egli ritorna sempre alla fonte.


Il linguaggio si converte in un cerimoniale di scongiuri e si presenta nella lucentezza della sua nudità iniziale, aliena a tutto il guardaroba convenzionale fissato in precedenza.


Tutta la poesia di valore tende al limite ultimo dell’immaginazione. E non solo dell’immaginazione, ma anche dello stesso spirito, perché la poesia non è altra cosa se non l’ultimo orizzonte, che è, a sua volta, lo spigolo dove si toccano gli estremi, dove non ci sono né dubbio né contraddizione. Giungendo a questo recinto finale, la concatenazione abituale dei fenomeni rompe la sua logica e, dall’altra parte, dove iniziano i territori del poeta, la catena si ricompone secondo una nuova logica.


Il poeta vi tende la mano per condurvi oltre l’ultimo orizzonte, più in alto della punta della piramide, in quel campo che si estende oltre il vero e il falso, oltre la vita e la morte, oltre lo spazio e il tempo, oltre la ragione e la fantasia, oltre lo spirito e la materia.


Lì ha piantato l’albero dei suoi occhi e da lì contempla il mondo, da lì vi parla e vi svela i segreti del mondo.


Nella sua gola c’è un incendio inestinguibile.


C’è, inoltre, un beccheggio marino tra due stelle.


E c’è quel Fiat Lux inchiodato sulla sua lingua.





*Appare pubblicato per la prima volta
come prologo a Temblor de Cielo (1931),
ma si tratta probabilmente del frammento
di una conferenza tenuta da Huidobro
almeno dieci anni prima a Madrid
.

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